Odi barbare, Alla stazione in una mattina d'autunno, 25–60, Giosuè Carducci

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E gli sportelli sbattuti al chiudere paion oltraggi: scherno par l'ultimo appello che rapido suona: grossa scroscia sui vetri la pioggia. Già il mostro, conscio di sua metallica anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei occhi sbarra; immane pe'l buio gitta il fischio che sfida lo spazio. Va l'empio mostro; con traino orribile sbattendo l'ale gli amor miei portasi. Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo salutando scompar ne la tenebra. O viso dolce di pallor roseo, o stellanti occhi di pace, o candida tra' floridi ricci inchinata pura fronte con atto soave! Fremea la vita nel tepid'aere, fremea l'estate quando mi arrisero; e il giovane sole di giugno si piacea di baciar luminoso intra i riflessi del crin castanei la molle guancia: come un'aureola più belli del sole i miei sogni ricingean la persona gentile. Sotto la pioggia, tra la caligine torno ora, e ad esse vorrei confondermi; barcollo com'ebro, e mi tócco, non anch'io fossi dunque un fantasma. Oh qual caduta di foglie, gelida, continua, muta, greve, su l'anima! Io credo che solo, che eterno, che per tutto nel mondo è novembre Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere, meglio quest'ombra, questa caligine: io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito.

Il quaderno di Paolo Bufalini pag. 82

estratto da Odi barbare

autore Giosuè Carducci